X.

La Letteratura della seconda metà del Quattrocento

1. La rinascita della poesia

Nella seconda metà del Quattrocento, come abbiamo già osservato, il fatto che piú colpisce è la grande nuova ricomparsa della poesia, che nel lungo periodo successivo alla morte dei due grandi scrittori trecenteschi, Petrarca e Boccaccio (e malgrado la presenza, alla fine del Trecento, del Sacchetti, e di minori scrittori del primo Quattrocento), non aveva trovato realizzazioni di alto rilievo. Tanto che, secondo una frase di Benedetto Croce, si sarebbe avuto, fra 1375 circa e metà Quattrocento, un secolo (o quasi) «senza poesia», come se le forze migliori del tempo fossero state interamente assorbite da un impegno culturale, filosofico, filologico, civile, da un intenso lavoro di elaborazione di una nuova civiltà.

Dalla maturazione di quella nuova civiltà trae slancio e forza la nuova poesia che fiorisce nella seconda metà del secolo, portando ad espressione poetica i temi e i motivi dell’Umanesimo con una nuova forza e libertà fantastica, che, a sua volta, era la conseguenza di un possesso piú intimo, diffuso, consolidato delle idealità umanistiche ormai profondamente vissute e divenute, dopo la laboriosa preparazione del primo Quattrocento, sangue vivo e circolante della società quattrocentesca.

La poesia esprime cosí, con la sua voce libera e decisiva, il sentimento piú profondo della civiltà umanistica, i motivi piú intimi della sua visione della vita, portando a piú sicura e originale creatività quello stesso gusto di moderno classicismo, di eleganza e bellezza, di perfezione formale, che gli umanisti di primo Quattrocento avevano ricercato e affermato piú teoricamente e nelle forme piú dirette dello studio e della imitazione dei classici antichi, e alimentandolo di tutta quella ricchezza di sentimenti umani, di vivo contatto con la realtà e con la natura, di sogni vaghi e luminosi, di prospettive pittoresche e figurative, che nasceva da un effettivo esercizio di vita spontaneamente aderente agli ideali umanistici del fondamentale valore della vita umana e terrena, del rapporto dell’uomo con la natura, della complessità dell’uomo con le sue gioie, i suoi dolori, la sua libera intelligenza e la sua fantasia creativa.

Si aprí cosí una stagione di fervida poesia che, se non giunse a consolidarsi in una di quelle personalità supreme e in uno di quei capolavori assoluti che troveremo invece nell’epoca rinascimentale (o che già trovammo nel Trecento con Dante, Petrarca e Boccaccio), si realizzò però in una vasta e numerosa serie di personalità e di opere di livello letterario molto alto e di varia e a volte forte consistenza poetica, testimonianza della fecondità della tensione poetica attiva nella matura civiltà umanistica del secondo Quattrocento.

2. Leon Battista Alberti

La personalità che riassume in sé tanti motivi ed elementi della civiltà umanistica quale si presenta a metà secolo è quella di Leon Battista Alberti (1404-1472), nato a Genova da una grande famiglia fiorentina e vissuto in varie città d’Italia (da Padova, dove formò la sua cultura letteraria, giuridica, artistica e scientifica, a Roma, Firenze, Ferrara e di nuovo a Roma dove morí), secondo un costume che vien prevalendo nella vita pratica degli umanisti, protetti dalle corti e dal mecenatismo delle Signorie, che ormai hanno quasi dappertutto sostituito i regimi comunali e repubblicani.

Ed inoltre egli ben rappresenta lo sviluppo della cultura umanistica in direzione di quella attività versatile e varia, di quell’esercizio geniale di capacità multiformi che troveranno esempi altissimi in Leonardo e, piú tardi, ín Michelangelo.

All’attività mecenatesca delle corti egli cosí collaborò anzitutto con la sua attività di architetto e di urbanista, contribuendo al rinnovamento edilizio di Firenze (il palazzo Rucellai, la facciata di Santa Maria Novella), di Rimini (il Tempio Malatestiano), di Mantova (Sant’Andrea, San Sebastiano), mentre in trattati latini e volgari (De re aedificatoria, Della statua, Della pittura, Ludi mathematici) veniva codificando i principi artistici che regolavano la sua attività di artista, interpretavano originalmente gli ideali umanistici di armonia, di equilibrio, di chiarezza classica e antigotica, e li consolidavano tecnicamente con procedimenti operativi in cui l’Alberti dimostrava il suo dominio di problemi matematici, fisici, ottici, architettonici.

L’ideale artistico dell’Alberti corrisponde d’altra parte allo sviluppo della sua meditazione, che, mossa inizialmente da un sentimento doloroso e pessimistico della realtà nella sua contraddittorietà, nel contrasto fra «virtú» umana e cieca potenza della «fortuna» (termini che ritorneranno poi nel pensiero del Machiavelli con ben altra profondità e con soluzione piú attiva e rinnovatrice), si apre (già entro le prime opere latine che corrispondevano piú direttamente a quel sentimento cupo e doloroso: Momus, Intercenales) ad una severa concezione stoica e virile della dignità e forza dell’uomo e della sua ragione contro gli ostacoli della fortuna e della natura (specie nel trattato morale il Teogenio) per ancor meglio consolidarsi in un ideale di saggezza e di equilibrio, di serenità interiore che ispira, con l’implicito appoggio della saggezza classica, le opere dedicate dall’Alberti al comportamento morale dell’uomo (Della tranquillità dell’animo), al governo della famiglia e dello stato (De Iciarchia), all’educazione dei figli, alla vita coniugale, all’amministrazione dei beni economici nell’ambito della famiglia: i quattro libri Della famiglia.

È quest’ultima la sua opera piú completa e significativa sia per l’espressione degli ideali dell’Alberti sia per la sua arte di prosatore in volgare. In quest’opera, impostata in forma di dialogo fra vari interlocutori, piú chiaramente e armonicamente vengono espressi gli ideali dello scrittore, ispirati alla sua esperienza della realtà familiare e sociale del suo tempo e alla esemplarità di classici scrittori di problemi morali come Senofonte o Cicerone. L’elogio delle virtú umane, fondate sulla ragione e sulla volontà, con cui l’uomo resiste ai colpi della cieca fortuna creandosi una saggezza e una tranquillità interiore fatta di moderazione e di temperanza, si associa a quello di una vita familiare prudente ed equilibrata, saldamente unita, rafforzata da una saggia amministrazione economica e da quella virtú del risparmio che ben corrisponde ad una pratica e concezione della borghesia del tempo. Come a tendenze della società contemporanea, che preferisce gli investimenti nella terra e nell’agricoltura alle avventure rischiose del commercio, corrisponde il desiderio albertiano di una vita idillica e laboriosa in campagna, nella villa, a contatto con la natura, di cui lo scrittore sa ben delineare la grazia e la bellezza spontanea in vivi quadri paesistici.

E questi ideali e desideri, incentrati in un gusto etico ed estetico della misura, dell’equilibrio, dell’armonia, ben si traducono nello stile della sua prosa volgare che, discostandosi da quella trecentesca, si appoggia ai modelli dei classici latini e che, pur a volte eccessivamente adoperando termini direttamente latini e forme sintattiche troppo latineggianti, riesce a costituirsi in un organismo elegante, decoroso ed armonico, ben adatto a sostituirsi alla prosa latina e a dare nuova dignità ed efficacia al volgare italiano.

3. Lorenzo il Magnifico

Al centro del secondo Quattrocento fiorentino si colloca Lorenzo dei Medici, detto il Magnifico. Nato nel 1449 e morto nel 1492, Lorenzo è personalità complessa e non facile da definire, tanti sono gli interessi che ne arricchiscono la breve ed intensa vita: interessi politici, interessi culturali e filosofici, interessi letterari con cui egli corrisponde alle esigenze e ai problemi di una società estremamente intelligente, colta, aperta al senso della realtà e insieme bisognosa di bellezza raffinata, avida di gioia e insieme tesa a prospettive ideali e spirituali, aristocratica e borghese e insieme aperta ad una simpatia per il popolo e per la sua vitalità e freschezza che non esclude l’ironia cittadina nei confronti della goffaggine campagnola.

Ma certo il primo saldo interesse e l’impegno piú urgente della sua vita furono quello politico, e nella politica si rivelarono piú chiaramente l’energia e l’intelligenza di questo signore fiorentino, di questo principe illuminato ed abile, teso a rafforzare in Firenze la potenza della sua casa e a consolidare il dominio di Firenze nella Toscana entro la difficile situazione italiana caratterizzata dalla tendenza degli stati maggiori (il ducato milanese, il regno di Napoli, la repubblica di Venezia, lo stato pontificio) a prevalere e ad estendersi l’uno a danno dell’altro.

Il capolavoro di Lorenzo fu cosí soprattutto la sua abile e spregiudicata affermazione dello stato fiorentino, consolidato all’interno sulla base del suo dominio personale – che salvaguardava le apparenze di certe istituzioni repubblicane concentrando però di fatto tutto il potere nelle mani del signore (specie dopo il momento critico della congiura de’ Pazzi, nel 1478, in cui perse la vita il fratello Giuliano) – e inserito abilmente nel difficile giuoco delle alleanze e dei contrasti degli stati piú forti mediante quella politica dell’equilibrio che Lorenzo seppe condurre avanti felicemente fino alla morte e che crollò poi miseramente con la calata di Carlo VIII.

Negli anni della sua vita politica, iniziata precocemente nel 1469 alla morte del padre, Piero, Firenze ebbe un periodo di prosperità, di pace, di forte espansione culturale, e Lorenzo, da politico intelligente e insieme da uomo di cultura (e non dunque solo per basso calcolo di «tiranno» che sfrutti la cultura a puri scopi di lustro e di prestigio), dedicò molta della sua attività ad un’opera paziente e geniale di promotore, di protettore, di collaboratore attivo della cultura e dell’arte dell’umanesimo fiorentino.

Non fu solo, ripeto, protettore e mecenate degli artisti e dei letterati, degli eruditi fiorentini, ma fu assai spesso il loro consigliere ed amico, visse a contatto con loro e con i loro problemi a cui lo avvicinavano la sua stessa natura ed educazione di uomo di cultura e di letterato. Sicché il suo stesso mecenatismo fu spontaneo e sincero e lo stesso prestigio, che egli ricavava dalla cultura e dall’arte come principe, non era tanto il frutto di un calcolo artificioso ed astuto, quanto il coerente risultato delle sue stesse esigenze personali e della sua comprensione del valore civile della cultura e dell’arte.

Per questo sarebbe assai meschino risolvere la sua attività di letterato, versatile e accordato con molte delle tendenze prevalenti nel clima culturale e letterario umanistico fiorentino, in un’operazione a freddo, e ispirata solo dal desiderio di rendersi piú accetto al popolo e ai dotti con le sue prove di letterato.

In realtà la sua copiosa e multiforme opera di letterato nasce da una consonanza intrinseca con ideali e tendenze del suo tempo e del suo ambiente, né manca, pur nel suo alto dilettantismo di letterato non professionale, di una rete di interessi genuini, di originali disposizioni espressive maturate nel contatto con i poeti e i dotti e gli artisti con cui egli ebbe rapporti stretti e costanti.

Mancò a lui una piú sicura ispirazione centrale, come ebbero invece un Poliziano o un Pulci, ma non gli mancò la capacità di un’adesione e di una partecipazione personale a motivi poetici affioranti con varia forza nel suo ambiente. Cosí a Lorenzo si devono opere come l’Altercazione e le Selve d’amore, piú direttamente intonate agli elementi dottrinali del neoplatonismo del Ficino, e rime (sonetti, canzoni, sestine) che riconnettono motivi dello spiritualismo neoplatonico a un senso della bellezza raffinata e visivamente colorita (un esempio può essere il sonetto Belle, fresche e purpuree viole), nella ripresa di schemi petrarcheschi e stilnovistici (e nel Comento si ripresenta lo schema della Vita Nova) che indicano in Lorenzo una particolare volontà di ricostituire, al di là dell’Umanesimo latino, una tradizione lirica italiana, prova anche delle possibilità del volgare da lui difeso ed elogiato.

E, mentre egli si adegua al classicismo del suo ambiente in alcuni poemetti mitologici (il Corinto, l’Ambra), arricchendolo di descrizioni di paesaggio piene di un vivo senso della realtà (si legga la descrizione dell’inverno nell’Ambra), altre volte la sua poesia cerca piú direttamente la via di una rappresentazione vivace e comica della realtà, con toni popolareschi, come avviene nel poemetto l’Uccellagione di starne o la Caccia col falcone, nel poemetto I beoni, pieno di gustose caricature di amici e cortigiani, e soprattutto nell’altro poemetto in ottave, la Nencia da Barberino (che è certamente suo, malgrado i tentativi fatti per attribuirla a Bernardo Giambullari), che rappresenta, attraverso la voce del protagonista, l’amore di un giovane pastore, il Vallèra, per una fanciulla, Nencia, e realizza esemplarmente l’incontro fra simpatia e ironia del signore coltissimo e cittadino nei confronti del mondo ingenuo, rozzo, ma schietto ed umano dei «villani» e ne riinventa il linguaggio saporito, immaginoso e goffo con un insieme di immedesimazione e di distacco, riuscendo a rendere la comicità involontaria e l’autenticità di passione di quell’amore rusticano.

È questa la prova piú compatta dell’abilità poetica del Magnifico insieme a quel Trionfo di Bacco e Arianna che, fra i canti carnascialeschi (per il carnevale o carnasciale) di Lorenzo, spicca per l’impeto del ritmo in cui vengono presentati con nitida evidenza i personaggi del mito classico (di cui il corteo carnevalesco era rappresentazione coreografica) e viene esaltato – come in un coro, voce di tutto un popolo e di tutta un’epoca – il tema della bellezza, della giovinezza e della sua fugacità, il consiglio a godere il presente senza attendere il dubbio futuro. In fondo le parole del Trionfo sono l’espressione piú centrale della poesia del Magnifico che, pur nella sua varietà (non mancarono nella sua opera neppure laude religiose e una sacra rappresentazione), vibra centralmente di un amore della vita, della giovinezza, del presente, a cui il paragone con la caducità, con i mali, con la morte, danno un accento tanto piú denso e una consapevolezza che riduce i margini di un edonismo volgare e mediocre. Lorenzo e gli uomini della sua cerchia sanno che nella vita c’è il male, c’è la morte, e tanto piú essi esaltano la vita, la bellezza, la giovinezza. Anzi poche epoche, come quella umanistica, han piú fortemente sentito, e fatto sentire, l’eccezionale bellezza della giovinezza, della primavera, di tutto ciò che, destinato a corrompersi e a sparire, appare ed è ancora intatto, vitale, pieno di forza e di spontaneità. Per ora il dramma è allontanato come la piena serenità armonica non è ancora raggiunta.

4. Luigi Pulci

Si ricollega invece piú fortemente agli elementi popolareschi dell’ambiente fiorentino di secondo Quattrocento la poesia di Luigi Pulci, che proprio dalla ripresa di una tradizione letteraria popolare toscana consolidata soprattutto nei «cantari» trecenteschi (poemi cavallereschi in ottave cantati dai cantimbanchi, o canterini, nelle piazze delle città toscane) ritrae non solo i temi del suo poema, il Morgante, ma la prima spinta ad una narrazione e rappresentazione poetica tesa all’evidenza spettacolare, alla varietà dei toni, fra comicità e solennità commossa, portandovi la maturità di un’intelligenza acuta e lo spirito critico antidogmatico, sollecitati dall’educazione umanistica e dalla vita socievole della corte medicea e la forza di una passione narrativa che, anche se episodica, supera i limiti di respiro e di costruzione dell’arte di un Poliziano o di un Lorenzo, nascendo da un interesse piú spregiudicato ed aperto per la vita e per la realtà.

Nato a Firenze nel 1432 da una famiglia borghese, impoverita e alle prese con gravi difficoltà economiche, ma anche piena di velleità letterarie (due fratelli di Luigi furono scrittori), il Pulci fu costretto a cercare un impiego per poi trovare, verso il ’60-61, protezione e aiuto sotto l’accogliente tetto dei Medici, dove godette il favore di Lorenzo e della madre sua, Lucrezia Tornabuoni, che lo avrebbe stimolato a iniziare la costruzione del Morgante. Negli anni passati nel palazzo dei Medici egli poté arricchire la sua cultura, che aveva risentito inizialmente delle difficoltà economiche della famiglia e che rimase sempre un po’ frammentaria e spesso piú costruita nel vivo scambio di idee del fervido ambiente laurenziano e fiorentino che non sulla base di ordinate letture.

Ma il periodo piú facile della protezione medicea, pur turbata da tristi vicende familiari (il fratello Luca morí in prigione incarcerato per debiti), fu interrotto a causa di alcune polemiche del Pulci con altri letterati di corte (polemiche in parte provocate da dissensi fra lo spirito scettico e spregiudicato del poeta e le tendenze religiose e neoplatoniche che venivano prevalendo a Firenze) ed egli dové lasciare Firenze, passare al servizio del conte di Caiazzo, Roberto Sanseverino, per concludere la sua vita, nel 1484, a Padova, dove fu sepolto in terra non consacrata a causa delle accuse di irreligiosità e di pratiche di magia che gli erano state rivolte.

Personalità vigorosa e geniale, ma piú estrosa e irruente che capace di forte autocontrollo e di riflessiva pacatezza, quella del Pulci si rivela appieno nel significativo ed efficacissimo epistolario e nel poema. Mentre altre opere minori (dalla Beca di Dicomano, imitazione poco felice della Nencia da Barberino di Lorenzo, alla continuazione del poemetto Ciriffo Calvaneo lasciato incompiuto dal fratello Luca, ad una Giostra per una vittoria di Lorenzo, sul tipo delle Stanze del Poliziano) non hanno che un valore di esperimenti deboli e intrapresi per ragioni occasionali ed esterne.

Ben altro è il vigore delle lettere, la cui lettura è di per sé documento di forte capacità espressiva, di linguaggio che si avvale delle risorse del parlato vivo e immediato e sale a forme estrose e immaginose da un realismo costante e sanguinoso. Mentre essa permette di meglio avvicinarsi al poema attraverso la conoscenza dell’uomo con i suoi moti impulsivi e fantastici, con i suoi risentimenti acri e satirici, con i suoi abbandoni accorati e malinconici («Non posso piú; mai pote’ fare disegno, che la fortuna non guasti in una hora quello ch’io ho condotto in molti anni. Io nacqui come la lepre e altri animali piú sventurati, per dovere essere preda agli altri...»), con il suo vivacissimo interesse per la vita e per la realtà fuori di ogni schema rigido e dogmatico. E infatti per capire la poesia e l’originalità del poema del Pulci, il Morgante, bisogna anzitutto comprenderne l’origine personale-storica, evitando di ridurlo ad un semplice divertimento e giuoco letterario, ad una specie di raccontato spettacolo, di rappresentazione comica, quasi teatrale, che il Pulci avrebbe costruito sul semplice e puntuale ricalco della trama di situazioni e figure ritrovata nei due cantari trecenteschi (l’Orlando e la Spagna in rima) che egli prese effettivamente a base del suo poema.

Si può senz’altro accettare il fatto che il Pulci abbia condotto il suo lavoro poetico servendosi dei fatti dei due cantari ricordati e che li abbia spesso ripresi quasi di peso. Ma non solo egli li ricreava a suo modo inventando altre situazioni e tipi, ma sempre egli in questa opera seguiva una sua ispirazione originale, esprimeva esigenze della sua visione della vita che era a sua volta originale interpretazione del suo tempo storico.

Festa, divertimento, spettacolo, sí, ma soprattutto sentimento e passione per la vita e la realtà nella loro spregiudicata libertà e opposizione ad ogni forma di astrattezza, di rigidezza, di moralismo, di fede accettata passivamente. Ciò che lo interessa è la vita e il suo scetticismo è, a suo modo, critico e non toglie una sua capacità di entusiasmo e di passione appunto per la vita e la realtà nella loro ricchezza di aspetti e di possibilità.

Non è dunque tanto un uomo che si proponga precisi scopi filosofici e riformatori, quanto uno spirito libero e impaziente di preclusioni e di schemi. E perciò egli si rivolge con avidità e letizia alle avventure, ai casi, alle vicende anche magiche, avvinto dalla ricchezza inesauribile della vita e della realtà, e si avvale coerentemente di un linguaggio realistico e immaginoso, violento e carico, comico e grottesco, caricaturale, ma anche commosso e capace di tenerezze e di abbandoni di fronte all’eroismo e alla tragedia degli uomini.

Qual è la trama del lungo e abbondante Morgante (poema in due parti, di complessivi 28 canti) cui il Pulci si applicò per anni e anni, dal ’60-61 all’anno precedente la morte?

Orlando, il famoso paladino franco, per sfuggire all’odio della nemica casa dei Maganza e del suo rappresentante piú autorevole, Gano, abbandona Parigi e la corte di Carlo Magno, ormai vecchio e troppo fiducioso nelle parole insidiose di Gano, e si dà a viaggi avventurosi. In una badia incontra Morgante, un gigante che si converte al cristianesimo e che, armato di un battaglio di campana, lo segue fedelmente. Per ricercare Orlando, anche Rinaldo, altro paladino e cugino di Orlando, insieme a Ulivieri e Dodone, lascia Parigi incontrando peripezie, duelli e avventure di ogni genere, finché tutti i paladini si ritrovano nella città del re di Caradoco e la liberano dall’assedio di un gigante. Ma Gano, che è il motore di tutta l’azione, ordisce un nuovo tradimento e induce un altro gigante, Erminione, ad assalire Parigi, che verrà salvata dall’accorrere dei paladini, che non riescono però a convincere Carlo Magno della perfidia di Gano.

Sicché di nuovo si allontanano da Parigi e, dopo varie avventure prodigiose, Orlando e Rinaldo assalgono Babilonia. E la città cadrà quando il fedele Morgante, dopo le comiche e stravaganti avventure compiute insieme al mezzo gigante Margutte (che muore in un accesso di risa alla vista di una scimmia che tenta di calzare i suoi stivali), sopraggiunge a dar man forte ai paladini.

Questi, nella loro inesauribile generosità, accorrono poi a liberare lo stesso traditore Gano che è stato fatto prigioniero della gigantessa Creonta: impresa ardua, durante la quale Morgante muore per il morso di un granchiolino, e che viene risolta solo in grazia dell’intervento del paladino mago Malagigi. Ma, come può immaginarsi, Gano risponde alla generosità dei paladini con un nuovo e piú grave tradimento.

Si accorda segretamente con il re arabo di Spagna, Marsilio, e lo induce a far guerra a Carlo Magno. Il re arabo viene sconfitto, ma, durante le trattative di pace, prepara un’imboscata alla retroguardia dell’esercito franco che ritorna vittorioso in Francia. Si accende cosí la tragica battaglia di Roncisvalle nella quale Orlando, privo dell’aiuto dei suoi amici piú validi, combatte eroicamente fino all’estremo delle sue forze e muore dopo aver invano, all’ultimo, suonato il suo magico corno. Il suono del corno richiama Carlo Magno e il grosso dell’esercito franco. Ma è troppo tardi, e Carlo potrà solo (finalmente risvegliato alla realtà dalla tragica morte del nipote Orlando) compiere una feroce vendetta su re Marsilio, impiccato, sugli arabi di Spagna, su Gano, che viene fatto squartare da quattro cavalli.

Questo rapido riassunto non dà che una pallida idea della realtà del poema, affollato di avventure, di viaggi in regioni lontane, di situazioni ora comiche e grottesche ora tragiche, eroiche, patetiche, di vicende realistiche e magiche insieme mescolate in un disordine colorito e vivacissimo in cui si muovono moltissime figure di cavalieri cristiani e maomettani, di giganti, di maghi, di donne e fanciulle e persino di diavoli ed esseri soprannaturali. Figure per lo piú rapidamente sbozzate, spesso caricaturali e quasi burattinesche, ma a volte anche piú compiutamente rappresentate con impeto e calore: come è il caso delle famose figure di Morgante e Margutte che sono al centro di un gruppo di canti particolarmente movimentati e ricchi della piú forte inventività e comicità realistica e immaginosa del Pulci. In questi episodi di avventure libere ed eccessive l’inventività di situazioni comiche e paradossali (esemplare la beffa atroce escogitata da Margutte, nella sua cinica astuzia volta al male, ai danni del povero oste derubato, bastonato ferocemente e allegramente), il gusto di creare figure vive soprattutto di una loro energia spavalda e senza rispetto di alcuna legge morale, l’eccezionale originalità del linguaggio che utilizza con grande libertà modi popolari e persino del gergo truffaldino e brigantesco, coincidono in una loro fusione impetuosa e rendono, in una comicità violenta anche nelle sfumature dell’ironia e del sarcasmo, il gusto piú spregiudicato di una vita sregolata e istintiva, ribelle ad ogni convenzione e ad ogni giudizio morale: pura vitalità, cui la stessa acuta intelligenza contribuisce, smantellando con feroce allegrezza (si ricordi il singolare «credo» di Margutte) ogni preclusione e remora religiosa e morale.

Ma, come dicevo, il poema del Pulci è ricco di toni diversi. Cosí la singolare figura del diavolo Astarotte (che interviene, per ordine di Malagigi, a riportare Rinaldo dall’Egitto in Francia) arricchisce il poema di toni ironici acuti e intelligentissimi e insieme di una pungente curiosità scientifica e persino di prospettive assai audaci sulla difficoltà di distinguere il bene dal male e sul valore della gentilezza, della solidarietà e della tolleranza umana di fronte a un mondo diviso da fanatiche dispute filosofiche e teologiche.

Non mancano cosí situazioni e avventure che toccano il patetico e la tenerezza (si pensi all’episodio della morte di Baldovino, il giovanissimo figlio del traditore Gano, che cerca la morte per riscattare la vergogna del proprio padre), o episodi in cui un sincero afflato grandioso ed eroico, risentito attraverso un’immaginazione popolaresca e un linguaggio realistico-immaginoso, anima energicamente la rappresentazione mossa e grandiosa di atti eroici e drammatici. Come avviene nell’episodio della battaglia di Roncisvalle e della morte di Orlando in cui circola, pur con l’intervento di inserzioni comiche meno appropriate, una impetuosa commozione per la grandezza dell’avvenimento gigantesco e del personaggio che muore eroicamente solo, chiuso nella coscienza del suo dovere e nel dolore di una vita faticosa e inutile.

Il senso piú profondo della poesia del Pulci nella storia della nostra letteratura è cosí quello di una singolare libertà umana e linguistica, di una mescolanza di toni che infrangono ogni ricerca di regolato classicismo e di regolata convenzione morale e artistica. Mancò al Pulci una piú sicura coscienza della forza di tale sua posizione e molto spesso essa fu surrogata dalla pura e semplice bravura, dal capriccio e dall’umore impaziente. Ma, pur nei suoi limiti di consapevolezza e di piú sicuro possesso del proprio mondo incandescente, il Pulci rappresenta certamente, nel mondo umanistico, una posizione singolarmente viva e attiva. E se essa ha pur rapporti con l’ambiente umanistico fiorentino, con lo stesso mondo artistico figurativo (il libero gusto del narrare episodico, della colorazione varia e realistica e immaginosa, fino al grottesco e al deformato: si pensi a certe battaglie di Paolo Uccello), con la tradizione popolaresca e realistica fiorentina e toscana cui la stessa letteratura piú propriamente umanistica guardava con simpatia, essa va misurata anche nelle sue interne ribellioni a quanto dell’Umanesimo poteva farsi rigore accademico e classicistico e nuova forma di conservazione filosofico-religiosa.

5. Angelo Poliziano

Il rappresentante piú alto dell’ambiente mediceo e della cultura poetica e umanistica fiorentina è Angelo Ambrogini, detto Poliziano dal nome latino, Mons Politianus, della piccola città toscana, Montepulciano, in cui egli nacque nel 1454. Egli, dopo un’adolescenza segnata da una grave sventura (la morte del padre notaio ucciso per vendetta familiare) e da difficoltà economiche, ma precocemente illuminata dal culto degli studi umanistici e della poesia, proprio per l’eccellenza dimostrata nel tradurre in un perfetto latino virgiliano quattro canti dell’Iliade (dal secondo al quinto: il primo era stato tradotto dal Marsuppini) si rese noto a Lorenzo il Magnifico e da lui fu chiamato a vivere nel sui palazzo, dove proseguí e completò la sua formazione umanistica latina, greca e volgare iniziata sotto la guida di maestri illustri come il Landino, l’Argiropulo, il Calcondila. Si aprí cosí per lui il periodo piú felice e poeticamente produttivo della sua breve vita. Precettore dei figli di Lorenzo, Piero, e poi di Giovanni, protetto e consigliere privato di Lorenzo (a nome del quale scrisse quell’epistola a Federigo di Aragona che presenta un’antologia di poeti italiani dallo Stil novo in poi e segna autorevolmente la consacrazione umanistica della poesia volgare illustre), il Poliziano sviluppò armonicamente le sue esigenze di studioso, di uomo, di poeta in un ambiente ricco di coerenti prospettive culturali ed artistiche in cui l’ordine interno della signoria medicea e la politica di equilibrio di Lorenzo richiedevano un’adeguata affermazione culturale e un’arte che sapesse esaltare la realtà presente in forme classiche e perfette, creando una nuova classicità non con una pedantesca e rigida imitazione degli antichi, ma con spregiudicata varietà e con il sapore schietto della vivacità popolare immesso in uno stile coltissimo e di suprema eleganza. Esigenze che il Poliziano tradusse personalmente e storicamente soprattutto, come vedremo, nel poemetto delle Stanze.

Quel periodo di accordo pieno e fecondo venne però turbato per il Poliziano dai crescenti dissensi prima con la moglie di Lorenzo, Clarice (che aveva forti sospetti sull’educazione «pagana» impartita ai figli), e poi con lo stesso mecenate, quando il Poliziano esitò nel seguire Lorenzo nel rischioso viaggio a Napoli dove il signore si recava a sfidare le ire del re aragonese. Cacciato dalla casa del Magnifico, il Poliziano peregrinò fra il ’79 e l’80 nell’Italia settentrionale (e allora, a Mantova, egli compose in due giorni, per una festa di corte, la favola teatrale Orfeo) per essere poi riammesso nella protezione di Lorenzo che gli assegnò la cattedra di eloquenza latina e greca nello Studio fiorentino, ma lo tenne poi lontano dalla sua confidenza.

In questi ultimi anni della sua vita il Poliziano si dedicò strenuamente ai suoi corsi universitari e agli inerenti studi filologici, in cui la passione per la poesia e per la letteratura si associa con una complessa ricerca di sistemazione culturale dell’Umanesimo fiorentino sia nella direzione di una riscoperta piú sicura della sapienza antica accordata con esigenze moderne (donde l’allargamento degli interessi polizianeschi dal campo letterario a quello della storia del diritto, della medicina, della botanica), sia in quella di un valido strumento filologico nella ricostruzione dei testi antichi (che alla prima direzione è funzionalmente raccordato), sia in quella della stessa ricerca di un canone di imitazione libero e vario, contrapposto a quello che cercava un unico esempio identificato soprattutto nella prosa di Cicerone. Da qui anche derivano le aspre e brillanti polemiche con altri umanisti, le corrispondenze con studiosi e pensatori, come Giovanni Pico della Mirandola (che contribuirono ad allargare il campo degli interessi polizianeschi sulle questioni dottrinali e religiose del neoplatonismo), l’attività di editore e di traduttore.

Da tutto ciò (e si ricordino soprattutto quei Miscellanea di cui fu pubblicata solo la prima centuria) risulta una posizione preminente del Poliziano nella cultura umanistica di fine Quattrocento che deve essere ben calcolata nel ritratto complessivo della sua personalità e che, mentre contraddice all’idea di un Poliziano poeta ingenuo e primitivo, rafforza il senso della sua rappresentatività storica e del significato storico della sua stessa poesia: poesia coltissima, fiore dell’Umanesimo, espressione poetica di un impegno culturale e di una consapevolezza della natura e dei compiti della poesia illustrati, non senza efficacia e capacità di scene e quadretti pure poeticamente interessanti, nelle prolusioni universitarie in versi latini.

Sono queste le Sylvae (Manto, Rusticus, Ambra, Nutricia) in cui il Poliziano esprime anzitutto il suo sentimento umanistico della poesia come «quiete degli uomini ed eterna voluttà degli dei», come «unica moderatrice delle cose sorretta da bell’eloquio»: insomma una poesia promotrice di una civiltà equilibrata, armonica, in accordo con la bella natura, stimolatrice di una felicità quieta e idillica, rasserenata e raccolta nel piacere estetico cui è necessaria una cultura raffinata e un senso schietto della realtà naturale scelta nei suoi elementi di bellezza e di vitalità.

Questi ideali di alto idillio, alimentato da un senso schietto della realtà naturale nella sua freschezza, nei suoi colori, nella sua bellezza, si avvalorano di un vasto possesso della letteratura classica e volgare (dai greci, che il Poliziano volle emulare nella loro stessa lingua nei suoi Epigrammi greci, ai latini, fra cui Virgilio, Ovidio, gli elegiaci fino agli autori della decadenza latina, agli italiani dello Stil novo e al Petrarca) intesa soprattutto nella sua perfezione squisita e idillica, mentre non manca certo un raccordo fra il gusto visivo del Poliziano e l’arte figurativa del Quattrocento, della quale vive nel Poliziano, come dicevamo, il nervoso e frizzante gusto della realtà e dell’esperienza accanto alla ricerca di una suprema eleganza e di un’armonia mossa e vivace che non ha ancora la floridezza piú piena del Rinascimento.

Né al Poliziano manca un sentimento anche acre del deforme e del brutto che deturpa la bellezza della vita e un malinconico avvertimento della morte e del dolore umano.

Sí che, specie negli anni piú tardi, è pur dato ritrovare nelle sue lettere accenti dolorosi e autoritratti melanconici come il seguente, tratto da una lettera della fine del ’78, in occasione di una pestilenza e di preannunci di guerre: «Io mi sto in casa al fuoco in zoccoli e in palandrano, che vi parrei la malinconia se voi mi vedessi... e non fo né veggo né sento cosa che mi diletti, in modo mi sono accorato per questi nostri casi!... e quando sono ristucco dello studio, mi do a razzolare tra moria e guerre e dolore del passato e paura dell’avvenire...».

Ma questi stessi sentimenti a loro volta rimandano il poeta al desiderio di una dimensione diversa, serena, tranquilla, perfetta in cui la bella realtà vive nella sua schiettezza ed eleganza sottratta all’appassimento, all’invecchiamento, alla caducità, alla morte.

È questo il motivo della tensione poetica polizianesca: l’ascesa dalla realtà transeunte, mutevole e difettosa, ad una dimensione di perfezione e di eleganza in cui gli elementi belli e schietti della stessa realtà, scelti fra gli aspetti diversi della vita, vengono a costituire una realtà superiore e pur sempre costruita di particolari reali, non astratti e puramente letterari.

Non si tratta dunque solo di un’operazione di stile, di decorazione sapiente e raffinata, ma di una piú profonda scelta dentro la realtà e di un movimento di ascesa che non perde mai la prima base di vivo contatto con la natura, con la vita.

Certo i primi componimenti poetici in latino – le elegie sulle viole (In violas) o su di una fanciulla classicamente denominata Lalage (In Lalagen) o sulla morte di una fanciulla aristocratica fiorentina, Albiera degli Albizzi – mostrano piú chiaramente le forme dotte e il linguaggio illustre in cui il Poliziano costruisce i suoi raffinati ideali poetici di bellezza, di grazia, di gentilezza luminosa e primaverile.

E viceversa i suoi rispetti spicciolati e continui (cioè brevi componimenti di tipo popolaresco isolati o legati in una serie o collana) e le stesse ballate piú tarde, come soprattutto quella sul maggio (Ben venga maggio e il gonfalon selvaggio) o quella sulle rose viste in un mattino di maggio (I’ mi trovai di maggio in un giardino), mostrano piú scopertamente la volontaria ripresa di motivi popolari e di movimenti gioiosi e scherzosi di una vitalità scoperta, attinta con avidità e resa elegante e armoniosa attraverso un’attenta cura linguistica e stilistica.

Ma in maniera tanto piú centrale e unitaria gli elementi letterari e popolari, il gusto della realtà e il bisogno di sceglierne le parti piú belle per costruirne un mondo di perfezione mossa e vivace, si fondono intorno all’essenziale motivo poetico polizianesco (creazione di una bellezza naturale resa perenne e fissata in ritmi e immagini perfette) nel poemetto del ’75-78, Le stanze per la giostra di messer Giuliano de’ Medici, il capolavoro del Poliziano e dell’Umanesimo fiorentino e italiano.

Il poemetto (in ottave o stanze, il metro che già il Boccaccio aveva ripreso dai cantari popolari per i suoi poemetti) ha un’origine chiaramente cortigiana e fiorentina-medicea.

Nel gennaio del 1475 aveva avuto luogo in Firenze una giostra, un torneo (ripresa di usanze cavalleresche cortesi da parte della corte di Lorenzo, che voleva cosí assorbire cerimonie e feste di carattere cortese con quelle feste popolari come il calendimaggio e i cortei carnevaleschi a precisare la natura illustre e popolare della sua corte, a saldare i vincoli fra aristocrazia e popolo in Firenze), nel quale era riuscito vincitore Giuliano dei Medici, fratello minore di Lorenzo e innamorato della bella Simonetta Cattaneo Vespucci.

Il Poliziano intendeva col suo poemetto celebrare la vittoria ottenuta da Giuliano in nome della sua donna, preparando il finale encomiastico, in onore di Giuliano e del fratello maggiore, attraverso un’elegante vicenda di amore che gli permettesse insieme di attuare la nobilitazione poetica e classica della vita e delle usanze della corte medicea, della viva cronaca cortigiana del tempo. Via ogni accenno alla politica ricordata solo all’inizio e nella protasi del poemetto attraverso le lodi a Lorenzo e alle sue imprese militari, via ogni elemento di preoccupazione o di gravi problemi. Sicché quando la morte, prima di Simonetta e poi quella tragica di Giuliano nella congiura de’ Pazzi nel 1478 (congiura che poi il Poliziano narrò, in precisa direzione di collaboratore della dittatura medicea, nella elegantissima prosa latina De coniuratione pactiana), venne a portare nella vicenda, immaginata felice, il brusco, gelido intervento della sventura, il poeta interruppe e abbandonò il suo lavoro (al secondo canto), sui cui possibili sviluppi nella descrizione della giostra non ci è dato dire altro se non che, molto probabilmente, questa ultima parte sarebbe riuscita meno poetica perché meno congeniale all’ispirazione e al motivo centrale della poetica polizianesca che già trovava difficoltà nel passaggio segnato nell’inizio del secondo canto alla parte descrittiva e piú direttamente encomiastica.

Del resto il vero encomio di Giuliano e della corte medicea era già stato attuato nel primo canto e nella nobilitazione del protagonista sotto le specie del giovane Julio, che dall’indifferenza amorosa e dall’interesse virile per lo sport della caccia viene improvvisamente convertito (ad opera del dio Amore e di sua madre Venere) alla gentile passione amorosa per la ninfa Simonetta, che magicamente gli appare durante l’inseguimento di una cerva, nel pieno splendore di una giornata primaverile e nel rigoglio luminoso ed elegantissimo di un prato fiorito, che è come l’anticipazione del meraviglioso giardino che circonda il palazzo di Venere nella cui descrizione si risolve la fine del primo canto delle Stanze e la stessa poesia polizianesca tocca la sua vera meta e il culmine delle proprie possibilità. Infatti, tutta la breve e lieve vicenda, che ha cosí poca consistenza psicologica e drammatica, vive poeticamente in funzione dello svolgimento del motivo centrale della poetica polizianesca: la progressiva ascesa dalla prima rappresentazione della caccia festosa e movimentata alla pausa contemplativa dell’incontro fra Julio e Simonetta che ci trasporta già in un regno naturale e magico, in una realtà mitizzata e superiore, fino alla rappresentazione del giardino e delle porte del palazzo di Venere che realizza la suprema aspirazione umanistica e polizianesca: il godimento di una zona eternamente bella, primaverile, felice e perfetta in cui bellezza, classicità, armonia, vitalità senza caducità, poesia e tensione ideale coincidono e non permettono ulteriori desideri e ulteriori possibilità artistiche.

Si ricordino i versi con cui si descrive questo paradiso terrestre umanistico:

Né mai le chiome del giardino eterno

tenera brina o fresca neve imbianca;

ivi non osa entrar ghiacciato verno,

non vento o l’erbe o li arbuscelli stanca;

ivi non volgon gli anni il lor quaderno,

ma lieta primavera mai non manca

ch’e’ suoi crin biondi e crespi all’aura spiega

e mille fiori in ghirlandetta lega;

e si comprenderà facilmente quale fosse il termine della tensione poetica e spirituale del Poliziano e del mondo umanistico di cui egli interpretava rigidamente le piú profonde esigenze estetiche e ideali.

Raggiunto quel punto supremo, la fantasia poteva liberamente svolgersi nella ricreazione di miti e favole classiche come documento vivo di una riconquista di un mondo immaginario e bello, non piú solo riscoperto e restaurato con la lettura, con la filologia, con l’erudizione, ma rivissuto attraverso una condizione spirituale originale che aveva ricreato il senso intimo della voluttà idillica, dell’armonia, dello stile suggerito dai classici.

Nascono cosí i quadri delle porte del palazzo di Venere in cui la fantasia figurativa del Poliziano si impegna nella rappresentazione di miti classici (la nascita di Venere, il ratto di Europa, la metamorfosi di Dafne, il matrimonio di Arianna e Teseo, di Plutone e di Proserpina, l’amore di Polifemo per Galatea, ecc. ecc.) in un tono di grazia e di eleganza sorridente e lieta, in una volontà di verità perenne, raggiunta per mezzo dell’arte squisita:

né ’l vero stesso ha piú del ver che questo.

Ma, ripeto, per giungere a questa zona superiore della sua poesia, il Poliziano è partito dalla rappresentazione della caccia di Julio tanto piú animata e rumorosa, accesamente colorita, e poi si è servito, come passaggio al regno del mito e della primavera e della bellezza perenne, della scena luminosa e magica dell’incontro fra Julio e la bella Simonetta, la cui bellezza è descritta con tocchi minuti ed essenziali, nell’accordo fra la figura femminile e il paesaggio che la circonda.

Quando la ninfa si allontana, Julio resta triste e desideroso e una lieve increspatura malinconica, sottolineata dai «dolci» lamenti dei boschi e degli augelletti, segna un movimento elegiaco che par corrispondere al sentimento polizianesco e umanistico della labilità e caducità delle stesse cose belle.

In realtà non si tratta che di una increspatura, di un tenue brivido che concorre a riaccendere la tensione dominante del poemetto verso il possesso saldo e perenne della bellezza e della grazia.

Si badi bene: la poesia umanistica del Poliziano non ha ancora la pienezza, la floridezza, la ricchezza di toni e di vita e di fantasia che caratterizzerà la grande poesia rinascimentale dell’Ariosto, e d’altra parte sarebbe anche errato confonderla con la poesia di tempi successivi, come quella delle Grazie del Foscolo, in cui il sentimento elegiaco e drammatico è tanto piú profondo, cosí come è piú profonda la tensione alla singolare immortalità della poesia e della bellezza. Vi è nell’arte del Poliziano qualcosa di piú acerbo e insieme di piú prezioso ed elegante e il cerchio di sentimenti da cui esso nasce è piú breve e angusto di quello di altri piú grandi poeti e di altre epoche piú piene e complesse.

Non molto diversa è la posizione dell’Orfeo, la favola teatrale che il Poliziano compose rapidissimamente per una festa di corte e che ha valore anche come primo ardito esempio di dramma di argomento non religioso, ma profano. Infatti, se la favola accentua i motivi elegiaci e dolorosi (l’amore di Aristeo per Euridice si conclude con la morte di questa che, fuggendo da lui, viene morsa da un serpente nascosto nell’erba; la nuova e definitiva perdita della donna da parte di Orfeo che non ha resistito al desiderio di guardarla mentre la riconduce fuori dall’Averno; l’uccisione di Orfeo ad opera delle infuriate baccanti), il motivo generale del componimento non è drammatico e la dolcezza del canto e la sua vivacità aulico-popolaresca prevalgono nell’esaltazione della bellezza labile e caduca, ma unica meta dei desideri e delle possibilità umane. E vi prevale un’arte sempre dotta e controllata in cui i temi assumono una loro grazia piú risentita e acerba, pur sempre elegante e squisita, idillica nella sua stessa perfezione e nella sua superiore stilizzazione.

6. Matteo Maria Boiardo

L’umanesimo ha sí il suo nucleo piú vigoroso e coerente in Toscana, alla corte fiorentina dei Medici, ma esso vive e fiorisce anche in altre parti e regioni d’Italia, specie in quelle città in cui la corte è centro di vita socievole, culturale e artistica, in cui convengono politici, dotti, artisti e letterati e la stessa organizzazione politica implica il bisogno di una educazione del ceto dirigente e burocratico che assiste i signori nel governo e nella diplomazia, nella organizzazione civile dello stato. La stessa natura delle signorie settentrionali, per lo piú di origine feudale, e i loro rapporti con il mondo e la civiltà d’oltralpe (specie in direzione della Francia e della Borgogna), danno alla loro cultura un aspetto piú chiaramente cavalleresco, aristocratico, fastoso, militaresco, mentre, rispetto al centro fiorentino, il loro classicismo mantiene qualcosa di piú acerbo, di meno armonico ed equilibrato, e lo stesso linguaggio letterario, pur educato dall’esercizio del latino e non insensibile alla forza di attrazione del toscano illustre dei grandi trecentisti e specie del Petrarca, si mantiene piú ricco di elementi locali e regionali, che verranno sconfitti (e non sempre) solo piú tardi durante il Cinquecento, ad opera della teoria linguistica fiorentina del Bembo a cui aderirà (e solo in un secondo tempo) il piú grande poeta italiano del Rinascimento, l’Ariosto, frutto supremo della civiltà ferrarese, ma rappresentante ormai piú direttamente legato alla tradizione italiana e fiorentina.

Proprio alla civiltà ferrarese, nella sua fase quattrocentesca e umanistica, e alla vita culturale e socievole della corte dei signori di Ferrara (e di Modena e Reggio), gli Este, è saldamente connessa la formazione e lo sviluppo della maggiore personalità poetica del Quattrocento settentrionale: quel Matteo Maria Boiardo che, nato nel 1441 a Scandiano, vicino a Reggio Emilia, da una famiglia di nobili e cortigiani degli Estensi, passò la sua vita di letterato e di alto funzionario estense nella capitale e nelle città minori del ducato ferrarese, alternando il suo esercizio artistico con l’attività di cortigiano e di governatore di Modena, di Reggio, del feudo di Scandiano: e qui nel 1494 si spense in coincidenza con quella calata di Carlo VIII che segnò l’inizio della rovina dell’indipendenza italiana e di cui il poeta avvertiva dolorosamente il tragico significato interrompendo la stesura del suo poema, l’Orlando Innamorato, al punto in cui ne riprese le vicende l’Ariosto, il quale pure saprà indicare in quel gravissimo avvenimento politico-militare una cesura drammatica nella storia italiana: «il bel vivere allora si sommerse».

Il Boiardo aveva vissuto i suoi anni piú felici e formativi in una Ferrara piena di fervore, di splendore, di potenza, con una università aperta allo studio umanistico del latino e della classicità, con una corte elegante e sfarzosa, avida di arte, di letteratura, di feste e spettacoli teatrali, e particolarmente sensibile a quella poesia cavalleresca carolingia e brettone, venuta di Francia, che confortava a suo modo, con le sue avventure, con le sue gesta eroiche, con i suoi amori eleganti, il bisogno di nobilitazione e di apertura fantastica di quella società che associava i suoi ideali umanistici di forte vita individuale ad una particolare ripresa delle virtú cavalleresche medievali.

A Firenze, con il suo fondo piú borghese e popolare, con il suo spirito piú acutamente critico, con la sua cultura piú sottilmente intellettuale, il mondo cavalleresco ed epico aveva potuto trovar nuova vita nel Morgante del Pulci in una dimensione eroico-comica. A Ferrara invece (dove piú tardi nasceranno i poemi dell’Ariosto e del Tasso) quel mondo poetico (già sostanzialmente amato nella sua duplice direttiva fondamentale del ciclo carolingio, piú epico ed eroico, e del ciclo bretone, piú avventuroso ed amoroso) trovava una reazione di simpatia piú fervida e appassionata, una piú schietta consonanza di rinnovate costumanze cortesi o almeno di ideali e di gusto cavalleresco.

Ciò avveniva particolarmente nel caso del Boiardo che alla sua cultura umanistica assai vasta, anche se non approfondita (fece numerose traduzioni dal latino di scrittori latini e greci: le Vite di Cornelio, il Timone di Luciano, la Ciropedia di Senofonte, il Chronicon del medievale Ricobaldo; e scrisse in latino poesie come gli Epigrammata, le Pastoralia, i Carmina de laudibus Estensium), e alla lettura dei poeti volgari (soprattutto del Petrarca, ripreso molto originalmente, come vedremo, nel suo Canzoniere) univa una forte passione per la letteratura epico-cavalleresca, espressa poeticamente nel suo capolavoro, l’Orlando Innamorato.

E, mentre nelle sue opere minori di vario impegno (oltre a quelle latine ricordate, dieci Ecloghe volgari, i Tarocchi – versetti da scrivere sulle carte da giuoco –, il dramma teatrale Timone) l’accordo del Boiardo con le esigenze del suo tempo e della corte estense si pronuncia in forme a volte piú appariscenti, ma certo piú contingenti e superficiali (fino ad una certa finalità di propagandista della casa estense), nel Canzoniere e piú pienamente nell’Orlando la sua ispirazione personale e la sua interpretazione del proprio tempo si fondono in una poesia che è fra le piú alte manifestazioni della letteratura quattrocentesca e che profondamente e originalmente realizza quell’ideale di energia vitale, di gusto del colore fresco e caldo, di nobiltà cavalleresca, di passione amorosa gentile e ardente, di avventura fantastica, che sono centrali nella tensione sentimentale, culturale ed espressiva del suo animo e della società in cui vive e a cui egli apporta un arricchimento poetico di singolare schiettezza.

Il Canzoniere o Amorum libri (come il Boiardo lo intitolò riprendendo il titolo di una raccolta di Ovidio, Amores), certo il maggiore canzoniere, la maggiore raccolta di poesie liriche del secolo, nasce da una passione giovanile per una fanciulla conosciuta a Reggio, Antonia Caprara, e trae dalle fasi di questa vicenda la sua partizione in tre parti (la gioia per l’amore corrisposto, il dolore per la crescente freddezza e il tradimento della donna, la rassegnazione malinconica di fronte all’esito sfortunato dell’amore): partizione che corrisponde insieme a un gusto di simmetria e di calcolata struttura (ogni parte è di cinquanta sonetti e di dieci componimenti di diversa costruzione metrica) e quindi fa capire come al fervore ispirativo e al fondo sentimentale sincero corrispondesse nel poeta una elaborata coscienza letteraria che si rivela anche nella utilizzazione di modelli poetici latini (Virgilio; Tibullo, Orazio) e italiani: soprattutto Petrarca.

Ma l’elaborazione letteraria e l’attenzione ad una tradizione poetica precedente non riduce, ed anzi potenzia l’originalità del poeta, che risolve gli stessi echi petrarcheschi (cosí frequenti che si può ben parlare di un petrarchismo boiardesco) in una direzione sua e assai diversa da quella del modello.

La sua direzione è contrassegnata soprattutto da una volontà e capacità di accordare lo stato d’animo di gioia o di trepidazione, di dolore o di malinconia, con un paesaggio in cui prevale il colore sul disegno, sino a forme intense e quasi fiammeggianti: paesaggio che diviene a volte anche termine di un colloquio (e cosí a volte sono animali e persone), di un colloquio appassionato ed effusivo che si sostituisce alla piú forte introspezione, al monologo insistente del Petrarca.

Sicché, con l’ausilio di un linguaggio che mescola forme illustri e sin latineggianti con forme piú locali emiliane e che permette una grande freschezza e una cantabilità fra sostenuta e popolare (si leggano i sonetti Il canto degli augei di fronda in fronda, Datíme a piene mani e rose e zigli, Già vidi uscir de l’onde una matina, Ombrosa selva, che il mio dolo ascolti, Ligiadro veroncello, Fior scoloriti e pallide viole), la poesia del Canzoniere diviene soprattutto voce di un’ardente, entusiastica passione giovanile in cui lo stesso dolore è incentivo di vitalità e di gioia visiva e l’amore, anche se doloroso, è presentato e sentito come fonte di vita, secondo la conclusione del sonetto di apertura:

... Chi nel fior de’ soi primi anni

senza caldo de amore il tempo passa,

se in vita è vivo, vivo è senza core.

E piú tardi nel poema, che è il capolavoro della maturità del Boiardo, come il Canzoniere è il capolavoro della sua gioventú, si dirà che

Amore è quel che dà la gloria

e che fa l’omo degno et onorato.

Non è che il poema sia solo un poema di amore e che l’amore ne costituisca l’unico motivo poetico, ma certo amore e bellezza femminile sono elementi essenziali della tensione e dell’entusiasmo del poeta e si mescolano inseparabilmente con la forza e con l’energia virile dei cavalieri, con il loro coraggio intrepido e avventuroso verso cui insieme va la simpatia poetica del Boiardo. Il quale, nella sua aspirazione moderna ad un mondo gentile e appassionato, generoso, leale, gagliardamente vitale e virtuoso, rievoca (sperando di alimentarne appunto una rinascita nel mondo contemporaneo, di favorire in questo le tendenze piú nobili contro la meschinità e la malvagità di certi aspetti della vita cortigiana da lui ben avvertiti anche per esperienza personale) l’affascinante peripezia delle lontane leggende epiche e cavalleresche in cui la fusione degli elementi dei cicli carolingio e bretone era naturalmente necessaria agli ideali del poeta che non poteva scompagnare eroismo e amore, coraggio e gentilezza. Sicché la fusione dei due cicli, a cui una volta si raccomandava l’originalità del Boiardo (in realtà era già stata avviata dallo stesso Pulci), non era certo un calcolo esterno e freddo, ma una conseguenza naturale della sua poetica e delle sue necessità piú interne.

All’Orlando Innamorato il Boiardo s’accinse forse fin dal 1475 e già nell’83 fu preparata un’edizione, oggi perduta, delle prime due parti. Ma successivamente il Boiardo continuò a lavorare alla sua opera, avviandone anche una terza parte, che rimase interrotta al nono canto prima per la discesa in Italia di Carlo VIII e poi per la morte del poeta. Diviso in tre parti (rispettivamente di 29, 31 e 9 canti), il poema s’apre con la descrizione della corte bandita che in Parigi raduna tutti i paladini e i cavalieri di Carlo Magno, ma anche i maggiori cavalieri pagani. Nel bel mezzo del convito ecco apparire Angelica, accompagnata da un cavaliere, che sfida a duello tutti i paladini di Carlo e che è, presentato sotto falso nome, il fratello stesso di Angelica, Argalia. Premio del duello, Angelica. Affascinati dalla rara bellezza di lei, tutti i paladini fremono, ansiosi di poter scontrarsi col misterioso cavaliere, le cui armi incantate hanno presto ragione prima di Astolfo e subito dopo di Ferragú, il quale però mostra tanto coraggio nel duello che il cavaliere, ammirato, rinuncia alla lotta e decide senz’altro di dargli la sorella in sposa. Ma intanto Angelica sparisce e tutti i paladini s’accingono ad inseguirla. Durante questo inseguimento, che riprende il classico motivo dei poemi romanzeschi, quello della ricerca della donna amata o di altro bene perduto, i paladini incontrano innumerevoli, meravigliose avventure. Ranaldo, giunto, contemporaneamente ad Angelica, nella foresta delle Ardenne, beve alla fontana dell’odio, mentre la fanciulla beve a quella dell’amore: cosí mentre essa s’innamora del paladino, questi fugge da essa, che odia, e da questa situazione si svolgono nuove avventure e vicende mirabili.

Intanto Gradasso, re di Sericana, porta la guerra contro i cristiani, prima in Ispagna e poi in Francia, giungendo ad assediare, nell’assenza dei paladini sparsi per il mondo, la stessa Parigi. Nella guerra però interviene Astolfo, che, venuto in possesso della magica spada di Argalia, che nel frattempo è stato ucciso da Ferragú, batte Gradasso e pone fine alla guerra. Mentre questo avviene in Francia, Ranaldo, rapito da Angelica, è confinato nel magico palazzo di un’isola incantata, e Orlando, tanto smemorato da non riconoscere Astolfo che viene per liberarlo, è tenuto prigioniero dalla maga Dragantina. Dalla quale lo libera invece Angelica, venuta a cercarlo affinché egli intervenga contro il re di Tartaria, Agricane, che, deciso a far sua Angelica, ha posto l’assedio ad Albraccà, regale sede del padre di Angelica, Galafrone, re del Catai. E sotto le mura di Albraccà avvengono terribili scontri, fino a quello finale in cui Orlando batte e uccide Agricane, dando luogo ad uno degli episodi piú intensi di tutto il poema. Ma ora è Ranaldo stesso che, in odio ad Angelica, continua l’assedio di Albraccà, scontrandosi infine con lo stesso Orlando che ferisce il cugino. Segue l’intervento di Angelica, che per salvare Ranaldo, del quale è sempre innamorata, allontana Orlando; e su questo tema ha fine la prima parte del poema.

La seconda parte, dopo aver narrato le imprese di Orlando contro le maghe Falerina e Morgana, passa a svolgere il tema della nuova guerra che Agramante muove contro Carlo Magno per vendicare la morte del padre Troiano, ucciso in duello da Orlando. Ma perché l’impresa abbia esito felice è necessario che partecipi ad essa Ruggero, cugino di Agramante, e perché ciò avvenga è indispensabile l’anello magico di Angelica, che viene rubato da Brunello. Cosí l’impresa può avere inizio. In Francia intanto è sceso dalla Spagna Rodamonte, al quale si oppone Ranaldo; e mentre questi va cercando il suo nemico, ricapita nella foresta delle Ardenne e beve questa volta alla fontana dell’amore, mentre Angelica, che frattanto è ritornata in Francia dove ha saputo che si trova Ranaldo, beve contemporaneamente alla fontana dell’odio. Invertite le parti, è ora Ranaldo che ama Angelica, mentre questa lo odia. Orlando, che ha accompagnato Angelica in Occidente, si scontra allora con Ranaldo, mentre Angelica, indifferente, assiste al duello. Ma sopraggiunge Carlo, che divide i due cugini e affida Angelica a Namo, il piú vecchio dei paladini. L’avrà in premio chi dei due si mostrerà piú valoroso nella nuova imminente guerra tra cristiani e pagani.

Durante la guerra un nuovo motivo ha avvio: quello di Ruggero che incontra Bradamante, sorella di Ranaldo e valorosa guerriera cristiana, e se ne innamora. Il poema s’interrompe, quindi, con l’arrivo di Orlando sotto le mura di Parigi assediata.

Queste le vicende essenziali del poema, che s’intersecano e si affollano secondo una tecnica di interruzioni e di riprese volontariamente perseguita dal Boiardo, quasi a tendere costantemente l’attenzione e l’interesse dei suoi ascoltatori. Perché indubbiamente il poeta dell’Innamorato ha anzitutto la stoffa del grande narratore e il gusto del narrare è fondamentale nel suo animo di poeta insieme all’amore per l’avventura e quindi anche per il colpo di scena, per i cambiamenti improvvisi delle situazioni. In una direzione che sarà ripresa dal tanto piú grande Ariosto, ma che nel Boiardo ha una meno profonda sicurezza di ritmo e di ordine nell’apparente disordine e spesso tocca una effettiva dispersività e una certa rigidezza nei passaggi che nell’Ariosto saranno invece cosí mirabilmente agevoli e disinvolti. Cosí come l’elemento del meraviglioso (maghi, fate, incanti, trasformazioni dei sentimenti dei personaggi operate magicamente: come la fondamentale magia della fontana dell’amore e dell’odio nei confronti di Angelica e di Ranaldo) è nel Boiardo piú materiale e meccanico rispetto alla suprema fusione del naturale e del meraviglioso (effetti magici da sembrare naturali e riproduzioni della natura che assumono il tono dell’incanto) nell’Orlando Furioso. E lo stesso linguaggio poetico dell’Innamorato è sí freschissimo e originale, ma non ha la morbida perfezione e la musicalità armonica piú profonda che avrà nell’Ariosto, e a volte può farsi pesante e approssimativo.

Ma anche questi aspetti di diversità rispetto all’Ariosto (proprio là dove la somiglianza è maggiore) rimandano ai centri personali e storici del poeta dell’Innamorato, che vive in una diversa situazione e in una diversa direzione umana e artistica da quelle da cui nascerà la grandissima poesia ariostesca.

Sicché poi si dovrà soprattutto rilevare come il centro animatore dell’Orlando Innamorato sia un sentimento energico e appassionato che, pur non mancando di elementi di gentilezza, di comicità, di ironia, effettivamente li domina e li inserisce sulla propria tensione e direzione piú centrale. E se il Boiardo può anche sorridere a volte su cavalieri ed eroi e su certi aspetti paradossali ed eccessivi delle loro gesta, piú centralmente egli partecipa con entusiasmo alle prove della forza fisica e morale, alle avventure eroiche ed amorose dei suoi personaggi appartenenti a quel mondo cavalleresco che egli ama, rimpiange e vorrebbe in qualche modo vedere modernamente risorto in una società piú intelligente e civile, ma ugualmente alimentata da una vitalità rude e vigorosa, da un gusto dell’avventura, del rischio, della fedeltà a valori essenziali (l’onore, l’amore, la causa della propria fede e del proprio signore) che possono accomunare, ad esempio, il piú saggio e pensoso Orlando e il piú ingenuo ed incolto Agricane. Proprio il bellissimo episodio del duello fra quei due cavalieri può essere scelto come esempio della maggior poesia boiardesca, fra i moltissimi episodi che, volta a volta, puntano variamente (nella ricca gamma di toni e di personaggi del poema) su toni piú direttamente epici e su battaglie e duelli (specie intorno al personaggio di Rodamonte) o su toni piú fiabeschi e magici (intorno a figure di fate come Falerina) o su toni piú direttamente amorosi (specie intorno ai personaggi di Orlando e di Angelica), o su toni comici (legati particolarmente alla figura spavalda di Astolfo o a quella del furbo ladro Brunello), ma che tutti hanno alla base quel sentimento dell’energia vitale, quell’amore per il vigore e quel gusto del narrare che sono essenziali nella poesia del Boiardo.

In qualche episodio risaltano, come dicevo, le qualità piú alte del Boiardo: sullo sfondo di una radura circondata da alberi e dominata dal notturno cielo stellato, dopo un aspro duello, i due cavalieri di fede opposta intessono un dialogo di alta potenza poetica, nel contrasto fra la spiritualità colta di Orlando (che vuole portare l’avversario a riconoscere verità religiose) e la mentalità ingenua e rude di Agricane che dichiara la sua incultura e la sua persuasione nei doveri militari e amorosi del cavaliere, ma nel fondo comune di una concezione eroica e avventurosa della vita che li fa riconoscere per simili.

Quando poi il discorso cade su Angelica, oggetto comune del loro amore appassionato, cortesia e reciproca simpatia di guerrieri e di cavalieri cedono il posto al sentimento di incompatibilità di un amore comune e, nel pieno della notte, riprendono incalzanti e furiosi, sino alla morte di Agricane, il duello e il tono cavalleresco-epico.

7. Il Pontano e la poesia latina

Nella seconda metà del Quattrocento, dominata dalla ripresa letteraria del volgare, lo stesso latino trova un piú sicuro impiego poetico e, nella generale, cresciuta tensione poetica ed artistica, anche la letteratura in latino può annoverare scrittori notevoli e opere di alto livello letterario e non prive di risultati di minore, ma non disprezzabile poesia.

Abbiamo già accennato alla squisita produzione latina del Poliziano e accenneremo, nel paragrafo seguente, a quella del Sannazaro.

Ma, mentre in questi due scrittori la produzione latina è solo una parte, e non la maggiore, della loro intera produzione poetica, vi sono altri scrittori che nel latino cercano l’essenziale e unico strumento espressivo del loro animo e dei loro motivi poetici.

Nel primo Quattrocento, i tentativi di poesia latina apparivano piuttosto stentati e faticosi, piú sul piano dell’esercitazione letteraria che della necessità poetica: cosí dicasi non solo per i fastidiosi poemi encomiastici come lo Sphortias del Filelfo in lode degli Sforza di Milano, ma anche per i piú gradevoli componimenti dell’Isottaeus del Basini che cantano gli amori di Sigismondo Malatesta con Isotta degli Atti.

E con migliori risultati il latino era stato allora usato nelle opere storiche, filosofiche, erudite già ricordate, e negli epistolari o in libri di memorie come quei Commentarii rerum memorabilium in cui Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), che poi divenne papa col nome di Pio II, seppe dar vita a descrizioni di paesaggio, idillicamente gustato e rappresentato mediante l’uso raffinato e intelligente di reminiscenze classiche.

Invece, come dicevo, nel secondo Quattrocento ci è dato incontrare scrittori in versi latini, in cui l’accresciuta perizia nell’uso del linguaggio latino poetico si associa ad una ispirazione piú schietta soprattutto nella direzione di una tematica amorosa e idillica cui ben si adatta la ripresa degli esempi degli elegiaci ed erotici latini, da Ovidio a Tibullo, Properzio, Catullo.

Sarà la lirica amorosa di Tito Vespasiano Strozzi o quella di Giannantonio Campano, o quella, tanto piú originale ed intima, del greco Marullo Tarcaniota (1453 circa-1500), venuto fanciullo dalla nativa Costantinopoli a Napoli e a Firenze.

Ma un posto di particolare rilievo, per la stessa abbondanza della sua produzione e per l’uso esclusivo del latino in opere di diverso argomento, merita Giovanni Pontano, nato a Cerreto di Spoleto, in Umbria, nel 1426, e morto nel 1503 a Napoli, dove egli passò la maggior parte della sua vita, ministro e diplomatico al servizio degli Aragonesi e animatore di quel circolo di dotti che, creato da Antonio Beccadelli, detto il Panormita, prese poi il nome di Accademia napoletana o pontaniana.

Già nelle sue numerose opere in prosa (trattati filosofici, astrologici, politici, dialoghi di soggetto morale e letterario, opere storiche come il De bello neapolitano) devono particolarmente valutarsi la perizia e la versatilità del suo latino, adoperato ad usi diversi e piegato ad esprimere, come una lingua viva, contenuti e argomenti varii e relativi ad una serie vasta di temi culturali del tempo, importanti, anche se non approfonditi, data la scarsa originalità e intensità dell’ingegno del Pontano.

Ma tale impegno e felicità dello scrittore, che adopera il latino con sicuro possesso come una lingua del tempo e come uno strumento d’espressione duttile e facile dei propri ideali e sentimenti, tanto piú colpisce nella produzione in versi.

Non che, anche qui, il Pontano esprima un mondo sentimentale profondo e vigoroso, ma nelle limitate possibilità della sua personalità – piú brillante e capace di impressioni colorite e vivaci che non intima e disposta a meditazioni intense e a intensi sentimenti – egli riesce a realizzare una rappresentazione poetica ricca di toni. Toni che svariano fra un tono di letizia e di edonismo, corrispondente alla gioiosa adesione del poeta alla natura e alla vita nei loro aspetti piú lieti, pittoreschi, sensuali e voluttuosi, specie nelle opere della gioventú e della maturità (come la Lepidina, egloga che celebra il mito delle origini di Napoli e la bellezza di quella città, del suo paesaggio, della sua vita popolare; come le poesie erotiche e quelle del De amore coniugali che cantano le gioie della vita familiare e che, nelle nenie per il figlioletto Lucio, cosí facili, cantabili, tenere ed aggraziate, raggiungono i risultati piú piacevoli di una poesia morbida e musicale, seppure rischiosa di eccessi di languore e di leziosità), e toni elegiaci e malinconici già affioranti nel finale del poemetto didascalico e astronomico Urania, dove il poeta ricorda la figlia precocemente rapita dalla morte, e poi, nella vecchiaia, piú insistenti e continui negli Jambici e nei Tumuli dedicati alla rievocazione delle persone care scomparse.

In complesso si tratta di una poesia che ben rappresenta la piú spiccata tendenza edonistica, idillica, voluttuosa, figurativa e musicale del gusto umanistico e l’estrema punta di una perizia formale che adopera il latino e i ricordi della letteratura classica per una grazia vivace e misurata, per un effetto di elegante modernità, senza mai raggiungere l’incontro tanto piú profondo fra grazia, eleganza e realtà di affetti e di cose che si può ritrovare nei maggiori poeti volgari della seconda metà del secolo.

8. Jacopo Sannazaro

L’ultimo e maggiore esponente della cultura e letteratura umanistica meridionale è Jacopo Sannazaro, vissuto fra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del nuovo secolo, alle cui tendenze letterarie egli offre esempi che agirono nella matura civiltà rinascimentale anche al di là dell’ambito italiano, come avviene soprattutto della sua opera maggiore e piú fortunata (almeno fino al Settecento): l’Arcadia.

Nato nel 1455 a Napoli da famiglia nobile, dopo un’adolescenza trascorsa nella campagna (donde un’esperienza viva di luoghi e situazioni bucoliche e pastorali che danno una base non unicamente letteraria al suo gusto idilliaco della natura), fece parte del circolo pontaniano e insieme si legò di tenace fedeltà alla casa regnante degli Aragonesi, dimostrando poi la sua intima dignità e nobiltà di cortigiano e di cavaliere seguendo nell’esilio, in Francia, nel 1501, lo spodestato re Federico e rimanendogli vicino finché questi morí nel 1504. Tornato a Napoli, visse dignitosamente appartato nella sua villa di Mergellina dedicandosi esclusivamente al proseguimento della sua attività letteraria, fino alla morte, avvenuta nel 1530.

Coerentemente alla sua preparazione umanistica e alla influenza del Pontano, egli svolse una lunga attività poetica in latino (che nelle Eclogae piscatoriae si raccorda ai motivi idilliaci della sua piú vera natura poetica, espressi in scene bucoliche ambientate, con finezza ed eleganza, nella vita semplice e felice dei pescatori napoletani) fino alla tarda composizione di un vasto poema, il De partu virginis, in cui cantando, con moduli virgiliani, la vicenda della nascita di Gesú, egli si avvicinò a quella tendenza di sintesi classico-cristiana particolarmente fortunata nell’ambiente del Rinascimento romano e delle sue ambizioni di un classicismo cristiano da contrapporre alle tendenze puramente mondane di altri filoni rinascimentali.

Ma anche in questa tarda ed elegantissima opera piú che una forte ispirazione religiosa prevale un gusto idillico e malinconico, di scene domestiche e naturali (come la descrizione della notte in cui nasce Gesú, nel morbido quadro della quiete notturna e nella rappresentazione della trepida attesa dei pastori): gusto che piú chiaramente si esprime nelle opere volgari che, d’altra parte, riescono tanto piú interessanti quanto piú filtrano i sentimenti dell’autore attraverso un’arte sapiente e armoniosa, frutto della sua poetica umanistica, del suo assiduo studio dei classici, del suo amore per le belle, eleganti forme della poesia.

Cosí, piú di certi componimenti occasionali per feste di corte (certe «farse» teatrali assai povere o certi monologhi da recitarsi in corte e chiamati gliommeri, cioè gomitoli, come filastrocche di gusto popolaresco e burlesco), valgono indubbiamente le rime, ispirate soprattutto all’amore per la dotta amica e consolatrice dei suoi ultimi anni, Cassandra Marchese, e che si avvicinano, per l’eleganza del linguaggio sorvegliatissimo e misurato, al piú maturo petrarchismo cinquecentesco (e in tale linguaggio esprimono sentimenti di malinconia e idillica grazia), e, come già si diceva, la sua opera maggiore e piú lavorata: l’Arcadia.

L’Arcadia (composta prima fra il 1480 e l’85 e pubblicata nel 1501, poi di nuovo rielaborata e stampata nel 1504) è una specie di romanzo pastorale che (sull’esempio della Vita Nova dantesca) intercala componimenti in rima a prevalenti e piú interessanti parti di prosa, e trasforma una vicenda di amore del poeta per una donna reale, Carmosina Bonifacio, nella storia fantastica di Azio Sincero (pseudonimo classico dello stesso poeta), che, a causa del suo amore infelice, lascia Napoli e si reca in Arcadia (la regione greca famosa per i suoi pastori-poeti e per la loro vita semplice e felice, priva delle angosce portate dalla civiltà), dove egli cerca pace prendendo parte alla vita dei pastori, ai loro giuochi e canti, ai loro semplici riti rurali. Ma, malgrado i conforti di un pastore-poeta che lo incita a sperar bene del suo amore, un sogno lugubre lo turba e Sincero ritorna, con un fantastico viaggio sotterraneo, a Napoli, dove apprende la notizia della morte della donna amata e dà sfogo al suo dolore e si accomiata dalla sua poesia. Cosí all’espressione del suo sentimento idillico e bucolico della bella e vaga natura, della vita campestre, dolce e consolatrice (motivo che rese celebre a lungo l’Arcadia sulla via dell’elogio della vita pastorale, fino all’Arcadia settecentesca) si intreccia, pur senza rilievo energico e appassionato (ché il Sannazaro è artista di toni delicati, aggraziati, resi piú morbidi e blandi dalla sua arte armoniosa e levigata), l’espressione di un sentimento malinconico ed elegiaco che era proprio dell’autore e che prese maggior consistenza nelle ultime parti del romanzo, composte nel triste periodo dell’esilio, con le inerenti delusioni, e la viva esperienza della caducità e provvisorietà dei beni mondani.

Nell’insieme l’Arcadia non è certo un’opera di grande poesia, e la sua tenue vena poetica non potrebbe esprimersi senza un ben umanistico e letterario richiamo alla poesia del passato. Ma, nei suoi limiti (che spesso toccano una certa monotonia e una idillicità troppo aggraziata o un’elegia troppo sospirosa), è pure un illustre monumento artistico, avvivato dai sottili elementi poetici già indicati (che nel loro fondo migliore implicano una certa innegabile intimità e una capacità di analisi psicologica sfumata e precisa) ed espresso in un linguaggio molto elaborato e sempre piú liberato da certe forme locali di napoletano illustre, volto sempre piú a quel toscano letterario elegante e armonioso che si avvaleva degli esempi del Petrarca e del Boccaccio nonché di esempi classici e che cosí faceva dell’Arcadia un esemplare efficace del nuovo volgare quattrocentesco.

9. Leonardo da Vinci

In una posizione singolare, e pur non astratta e fuori della storia, che richiama da una parte profondi elementi dell’umanesimo nella sua spinta verso la natura e la sua conoscenza, e, dall’altra, si oppone ad ogni forma di semplice imitazione dei classici e di pura eleganza formale (donde la sua, pur eccessiva, autodefinizione di «omo sanza lettere», di autodidatta che rifiuta polemicamente una cultura puramente letteraria), si colloca la grande personalità di Leonardo da Vinci (1452-1519), che trovò la sua espressione piú alta nell’attività scientifica e artistica esercitata con inesausta genialità e con interessi molteplici, che vanno dalla pittura alla scultura, all’architettura, alla ingegneria idraulica, all’anatomia, alle ricerche su macchine aeree, alla musica, alla teoria della pittura, all’indagine sulle leggi della natura. Al centro dunque della sua importanza storica son da collocare la sua genialità artistica e la sua genialità di scienziato che parte dall’«esperienza» e dall’osservazione scientifica e le contrappone ai principi dell’autorità tradizionale, ai metodi basati sulla memoria e alla ricerca di un «sapere» astratto che sia privo, appunto, della forza della sperimentazione e del coraggio dell’intelligenza che non si deve fermare mai davanti a nessun ostacolo di convenzioni e di pregiudizi. Ma la sua grandezza di artista, soprattutto realizzata nella pittura – basti pensare alla Gioconda e alle Vergini delle rocce –, e di scienziato, profondamente interessato alla scoperta dei nessi fra uomo e natura, fra sensibile e sovrasensibile, in una direzione di «Umanesimo scientifico» che sembra anticipare il metodo sperimentale di cui sarà maestro, tanto piú tardi, Galileo, trova espressione anche nella sua prosa.

Egli scrisse innumerevoli pensieri, abbozzi di trattati, dedicati alla trattazione dei suoi problemi scientifici e artistici e che sempre investono anche una profonda e originale meditazione sulla vita e sull’uomo, sull’universo, sulla sua incessante vicenda di vita e di morte, sul suo misterioso variare di forme, che attraggono con la loro bellezza e stimolano il grande pittore a ricercare, con la parola, rappresentazioni concrete e sfumate quasi in gara con la pittura, e insieme rendono assorto e pensoso, commosso e meditabondo l’indagatore, lo scienziato, il filosofo. Donde nello scrittore (che pur non cerca raffinati risultati formali e disprezza ogni rettorica, ma non manca di una sua base salda, anche se limitata, di letture di classici antichi e italiani) un alto e complesso movimento di lucido e commosso entusiasmo, di pensosità e di umanissimo sentimento, di inesausta volontà di conoscere e di sperimentare la complessità della natura e dell’uomo e di insoddisfazione in questa stessa tensione infinita. Ne nasce uno stile concreto e suggestivo, razionale e poetico, che ben corrisponde alla natura complessa e profonda di Leonardo, della sua mente e fantasia, nonché della sua moralità che cosí fortemente si afferma in certi alti pensieri piú direttamente dedicati alla vita dell’uomo: come quello che definisce «transito di cibo» gli uomini senza vita intellettuale e morale, o quello che assimila una «vita bene usata» che dà «dolce morire» ad «una giornata bene spesa» che dà «lieto dormire».